Post by F.M.ArouetA causa del mio ateismo e della mancanza di, per dirla alla Battiato,
un centro di gravita' permanente, faccio talvolta fatica a distinguere
il bene dal male.
E' inevitabile, poichè il tuo bieco ateismo ti pone in una condizione
colpevolemente dis-graziata, e non ti sarebbe certo di alcun aiuto
il centro di gravità permanente di Battiato, che si riferisce alle
dottrine esoteriche di Ouspensky, eterodosse rispetto alla retta
dottrina cattolica.
Post by F.M.ArouetForse tu o qualcun'altro puo' quindi essermi d'aiuto.
Questo e' bene o male?
Per stabilirlo occorre circostanziare gli eventi,
fare riferimento alle leggi internazionali allora vigenti,
e soprattutto stabilire se ci si trovava ad agire
nell'ambito di guerre giuste.
Per quanto riguarda la seconda guerra mondiale,
avevo già illustrato nei messaggi precedenti come
il Papa Pio XII prescrivesse l'obbedienza di tutti
i cittadini nei confronti delle autorità fasciste,
anche e soprattutto riguardo alla guerra in corso.
Il 5 settembre 1940, in particolare, parlando ai fedelissimi
giovani dell'Azione Cattolica, Pio XII raccomanda di "rendere
il debito rispetto e di prestare leale e coscienziosa obbedienza
alle autorità civili"; in tale modo i giovani dell'Azione Cattolica
"dimostreranno di essere non solo ferventissimi cristiani, ma anche
perfetti cittadini, non estranei agli alti compiti della convivenza
nazionale e sociale, amanti della Patria e pronti a dare per essa
anche la vita, ogni qualvolta il legittimo benessere del Paese richiegga
questo supremo sacrificio."
Subito dopo l'intervento dell'Italia in guerra il presidente
dell'Azione Cattolica aveva indirizzato ai giovani questo messaggio:
"Il 10 giugno la parola del Duce ha chiamato il popolo italiano alle armi.
Fra quanti accorrono per indossare il grigio-verde si trovano numerosi
i giovani di Azione Cattolica. Ad essi giunga il nostro primo saluto
pieno di fierezza e di amore.
Una tradizione gloriosissima scritta con gesta eroiche dai soci
della Gioventù in numerose guerre è affidata a questi fratelli
soldati ed essi sapranno custodirla e accrescerla."
A guerra iniziata padre Agostino Gemelli, magnifico rettore
dell'Università Cattolica di Milano sollecita l'arruolamento
degli studenti cattolici e affianca creativamente al "trinitario"
"Credere, obbedire, combattere", il suo motto "quadrifonico":
"Credere, pregare, obbedire, vincere".
Durante la guerra egli scrive: "Dobbiamo essere grati al Fascismo:
ad esso dobbiamo corrispondere educando i giovani studenti nostri
ad essere tra i primi a servire con fedeltà l'Italia."
Ancora nel 1942, quando le sorti del conflitto già volgevano al peggio
per l'Italia, padre Gemelli vantava e esaltava, tra i cinquemila studenti
della "Cattolica" partiti per il fronte, come "primizia offerta a Dio,
il sangue di ventisette giovani già caduti in questa guerra, che oggi
l'Italia combatte per una maggiore giustizia."
Per dimostrare fino a che punto la Chiesa rimase fedele al fascismo
persino quando quest'ultimo era ormai moribondo, basta ricordare
che l'Azione Cattolica Italiana, cioè la maggiore struttura organizzativa
del laicato cattolico, ancora nel 1942, quando le sorti del conflitto
erano ormai segnate, vantava ed esaltava le sette medaglie d'oro
conferite e le altre nove proposte ai suoi soci per meriti di guerra,
e i nove assistenti diocesani caduti al fronte come cappellani militari.
Persino dopo lo sbarco in Sicilia, il 10 luglio 1943, quando era
evidente a tutti che il regime fascista stava per crollare, il vescovo
Evasio Colli, direttore generale dell'Azione Cattolica, raccomandava
a tutti gli iscritti l'obbedienza e la disciplina nei confronti della Chiesa
e del governo fascista:"In quest'ora carica di gravi responsabilità,
l'A.C.I., la quale ha per fine precipuo la difesa e l'incremento della
vita e civiltà cristiane, dà ai suoi soci una sola consegna: continuare
il proprio lavoro con senso di esemplare obbedienza alla Chiesa
e di leale disciplina di fronte alle autorità costituite."
Per entrare con più precisione nel tema che ti interessa,
è bene chiarire che delle legittime rappresaglie contro
le popolazioni civili facevano parte non solo il coprifuoco,
il divieto di riunione, la limitazione negli spostamenti,
la riduzione degli alimenti, l'imposizione di tributi in denaro
o in natura, la confisca del bestiame, il lavoro forzato, l'evacuazione
dei territori in cui si erano verificate sommosse e la distruzione
di quartieri, ma anche l'uccisione di ostaggi o di detenuti.
La convenzione dell'Aja non prevedeva alcuna norma che vietasse
l'esecuzione sommaria di civili. Anzi, durante la conferenza del 1907,
nessun ascolto trovò la proposta del delegato olandese che chiedeva
che in territori occupati i catturati potessero essere uccisi solo a seguito
di una regolare sentenza.
Il tribunale di Norimberga addirittura confermò che "le misure
di rappresaglia in guerra sono atti che, anche se illegali, nelle condizioni
particolari in cui esse si verificano possono essere giustificati: ciò
in quanto l'avversario colpevole si è a sua volta comportato in maniera
illegale e la rappresaglia stessa è stata intrapresa allo scopo di impedire
all'avversario di comportarsi illegalmente anche in futuro."
Con la fucilazione di ostaggi si poteva ottenere l'obbedienza degli
abitanti di territori occupati ai sensi dell'Art. 42 della convenzione
dell'Aja allorquando altre misure non fossero risultate sufficienti:
"La popolazione ha l'obbligo di continuare nelle sue attività abituali
astenendosi da qualsiasi attività dannosa nei confronti delle truppe
e delle operazioni militari. La potenza occupante può pretendere
che venga data esecuzione a queste disposizioni al fine di garantire
la sicurezza delle truppe occupanti e al fine di mantenere ordine
e sicurezza. Al fine di conseguire tale scopo la potenza occupante
ha la facoltà, come ultima ratio, di procedere alla cattura
e alla esecuzione degli ostaggi".
Per quanto riguarda i criteri di scelta degli ostaggi il diritto
internazionale non forniva chiarimenti. La scelta poteva essere
effettuata con criteri di discrezionalità. Come mezzo coercitivo
infatti le rappresaglie acquistavano forza particolare soprattutto
quando venivano colpite persone che non erano state
sottoposte a processo.
Nel caso n. 7 giudicato a Norimberga i giudici affermarono:
"Il criterio discrezionale nella scelta può essere disapprovato
ed essere spiacevole, ma non può essere condannato e considerato
contrario alle norme del diritto internazionale. Deve tuttavia esserci
una connessione fra la popolazione nel cui ambito vengono scelti
gli ostaggi e il reato commesso".
Il diritto alla rappresaglia venne accolto anche alle forze britanniche
nel paragrafo n.454 del "British Manual of Military Law".
Le forze americane a loro volta prevedevano la rappresaglia
nel paragrafo n. 358 dei "Rules of Land Warfare del 1940.
Per le truppe francesi, l'allegato I alle istruzioni di servizio
del 12 agosto 1936 consentiva all'Art.29 il diritto di prendere
ostaggi nel caso in cui l'atteggiamento della popolazione fosse ostile
agli occupanti, e il successivo Art. 32 prevedeva l'esecuzione sommaria
degli stessi ostaggi se si verificavano attentati.
Nell'occupazione del territorio tedesco nel 1944 e 1945, anche
gli alleati fecero riscorso a rappresaglie e catture di ostaggi
in conformità alle disposizioni che erano in vigore nei loro paesi.
Ecco alcuni esempi:
A Stoccarda il generale francese Lattre de Tassigny minacciò l'uccisione
di ostaggi tedeschi nel rapporto di 25:1 se fossero stati uccisi soldati
francesi.
A Marcktdorf erano previste fucilazioni di ostaggi nel rapporto di 30:1.
A Reutlingen i francesi uccisero 4 ostaggi tedeschi affermando che
era stato ucciso un motociclista che in realtà era rimasto vittima
di un incidente.
A Tuttlingen, i francesi annunciarono il 1° maggio 1945 che per ogni
soldato ucciso sarebbero stati fucilati 50 ostaggi.
Ad Harz le forze americane minacciarono di esecuzione punitive
nel rapporto di 200:1.
Quando il generale americano Rose, nel marzo del 1945, rimase
vittima di una imboscata, gli americani fecero fucilare per rappresaglia
110 cittadini tedeschi. (In realtà Rose era stato ucciso in un normale
combattimento, soldati contro soldati - e l'imboscata è pur sempre
un atto di guerra se si portano le mostrine e la divisa).
A Tambach, presso Coburg, in data 8 aprile 1945 il tenente americano
Vincent C. Acunto fece fucilare 24 prigionieri di guerra tedeschi
e 4 civili; accusato di omicidio, venne assolto.
A Berlino l'Armata Rossa che l'occupava minacciò fucilazione
di ostaggi nel rapporto di 50:1.
A Soldin, Neumark, i russi andarono al di là di questa cifra: furono
fucilati 120 cittadini tedeschi perchè un maggiore russo era stato
ucciso nottetempo da una guardia tedesca. (che poi risultò essere
stato ucciso perchè il russo gli stuprò la moglie).
Una delle più gravi fu la strage di Annecy del 18 agosto 1944,
in un campo di prigionieri tedeschi gestito da americani e francesi;
proporzioni di 80:1.
A Bengasi, gli inglesi di Montgomery contro gli italiani
applicarono quella del 10:1.
Per quanto riguarda i campi di concentramento (non campi
di sterminio, che sono una cosa completamente diversa)
era una prassi comune a tutte le Nazioni quella
di istituirli, soprattutto nel caso di ribellioni armate,
o di occupazioni militari di guerra, in presenza di una feroce
guerriglia, che poteva contare sulla connivenza o sull'appoggio
delle popolazioni locali (casi della Libia e della Jugoslavia).
E' peraltro bello e istruttivo ricordare che i liberaldemocratici
Stati Uniti d'America, al di fuori di questi casi, e cioè nel loro
pacifico territorio, rinchiusero in campi di concentramento
decine di migliaia di cittadini (di loro cittadini, cioè di pacifici
e inoffensivi cittadini americani) in quanto "colpevoli"
di avere origini giapponesi, tedesche o italiane....
E' inoltre bello e istruttivo ricordare che i campi di concentramento
"moderni" furono inaugurati dai liberaldemocratici inglesi agli
inizi del ventesimo secolo, nei confronti della popolazione boera.
Per la verità, visto l'altissimo numero di donne e bambini che
vi crepavano, forse sarebbe meglio dire che i liberaldemocratici
inglesi inaugurarono i campi di sterminio...
E' inoltre bello e istruttivo ricordare che nei campi di concentramento
dei liberaldemocratici alleati sono morti quasi un milione di tedeschi,
DOPO la fine della guerra.
E' inoltre bello e istruttivo ricordare che ancora negli anni'50,
dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo
le liberaldemocratiche Francia e l'Inghilterra difendevano
i loro domini coloniali con la tortura e i massacri sistematici
(ad esempio in Kenia, e in Algeria).
E' inoltre bello e istruttivo ricordare fino all'inizio degli anni '60
nei liberaldemocratici Stati Uniti sussistevano leggi di discriminazione
razziale contro i negri, che impedivano loro non solo di frequentare
le stesse scuole, ma anche gli stessi autobus e gli stessi cessi
dei liberaldemocratici bianchi.
Riguardo alla presenza italiana in Jugoslavia, sarebbe viceversa
opportuno ricordare l'altro lato della medaglia, e cioè il fatto
che il nostro esercito, per volontà di Mussolini, salvò decine
di migliaia di ebrei, e si interpose e si oppose alle stragi
etnico-politiche ["Mussolini, da parte sua, non esitò nemmeno
a intraprendere vere e proprie azioni di forza nei confronti
di Paesi alleati, come la Croazia:"L'occupazione militare italiana
fu estesa alla seconda e alla terza zona (in Dalmazia erano state create
tre prefetture italiane e tre zupanati croati incastonati gli uni negli
altri) per frenare i massacri di serbi e contenere le esplosioni
di odio contro gli ebrei."
Il link lo avevo già messo in un messaggio di questo thread
a te indirizzato....
http://tinyurl.com/m8ymxw]
Passando ora al tema della guerra di Etiopia, se può
sembrare strano che gli etiopi insistessero nell'attaccare
i presidi italiani, e a oltrepassare i confini a fini di razzia,
bisogna pure tenere conto del fatto che essi ricordavano
di avere sconfitto l'esercito italiano appena 40 anni prima
in ben due battaglie: quelle di Dogali e di Adua.
E' bello e istruttivo ricordare a quale infimo e ridicolo
livello i governi massonici e ferocemente anticattolici,
sostanzialmente atei, avevano ridotto l'Italia: era
la prima volta che un esercito moderno, composto
di bianchi, veniva sconfitto per ben due volte da
un esercito barbaro composto da negri africani...
Per quanto riguarda la guerra d'Etiopia, nello stesso messaggio
a te indirizzato avevo già messo un link che evidenziava come
prima tutti i vescovi italiani, e poi lo stesso Papa, le riconobbero
il carattere di guerra giusta.
http://tinyurl.com/m5q45n
Riguardo all'uso dei gas, come già detto, il nostro governo documentò
alla Società delle Nazioni che gli etiopi non solo utilizzavano
proiettili esplodenti (dum-dum) vietati dalle convenzioni internazionali,
ma torturavano, eviravano e massacravano i prigionieri italiani
(alla faccia degli intellettuali che negavano l'inciviltà dell'Etiopia...).
I gas furono utilizzati come estrema misura di ritorsione, non potendosi
procedere all'applicazione del diritto di rappresaglia in maniera
omologa (i nostri soldati avrebbero dovuto torturare, evirare,
massacrare i prigionieri etiopi...).
Visto che sei voluto tornare sul tema, cercherò di fare capire
in modo più chiaro e particolareggiato il comportamento
che erano soliti tenere i civilissimi etiopi, con alcuni testi
tratti dal sito Santosepolcro, che risponde ad argomentazioni
simili alle tue:
"TORTURA E DECAPITAZIONE DELL'AVIATORE MINNITI
Dichiarazione di tre membri della missione sanitaria egiziana:
Il giorno 15 febbraio 1935-XIV E.F. negli uffici di redazione del Giornale
d'Oriente, si è presentato spontaneamente il signor Abdel Mohsein El Uisci
cittadino egiziano, dimorante al Cairo, gia addetto in qualità di aiuto
farmacista alla missione sanitaria egiziana in Abissinia, il quale ha fatto
a me Zamboni dott. Filippo fu Albino, alla presenza di quattro testimoni:
Tozzi Cav. Ing. Latino, Albanese prof. Arduino, Malesci prof Pier Luigi,
Subhi Uehedah, le dichiarazioni seguenti confermate categoricamente dagli
altri membri della Missione, signori Kamel Aluned e Labili Salamah, che
hanno raccolto testimonianze concordi degne di fede, in Etiopia.
Abdel Mohsein Uisci sotto il vincolo del giuramento ha dichiarato:
"Il giorno 24 dicembre alle ore 16 circa, mentre uscivo dalla tenda
dell'ambulanza egiziana, a Bolali, ho visto passare un gruppo di armati
abissini, al comando del graduato Manghestu, che trascinavano
un individuo in tenuta di aviatore, il quale aveva le mani legate
dietro la schiena. Dovendo recarmi a prendere acqua nella vicina
località di Bìr, mi posi in cammino seguendo la stessa strada
degli abissini. Essi si fermarono non molto lontano e, dopo
avere tolta la tuta all'aviatore, gli misero ì ceppi anche ai piedi
e lo legarono ad un albero.
Chiamato dal graduato Manghestu, che mi chiese una sigaretta,
mi avvicinai e, incuriosito, mi fermai a guardare, non prevedendo
certamente lo spettacolo orribile a cui avrei dovuto assistere.
I soldati, mentre il graduato seduto a terra fumava la sigaretta
che gli avevo dato, slegarono le mani al prigioniero e, tenendolo
fermo,gli mozzarono le dita.
Manghestu, finito di fumare, si avvicinò al disgraziato che urlava
di dolore, gli rimise i ferri ai polsi insanguinati, gli tolse la giacchetta
e la camicia e gli sputò in faccia. Uno dei soldati gli recise un ciuffo
di capelli dietro il capo, come gli abissini usano fare ai delinquenti,
e lo consegnò al Manghestu.
Quindi all'aviatore vennero liberati i piedi e tolti i pantaloni
che, essendo stretti in fondo, furono tagliati col coltello.
Egli rimase così completamente nudo.
Un soldato gli rimise i ferri ai piedi e inginocchiatosi - premendo
con la testa il ventre del disgraziato per tenerlo fermo - gli recise
gli organi genitali.
L'aviatore diede un urlo straziante, mentre il sangue usciva impetuoso
dalla spaventosa ferita.
A questo punto io che ero rimasto inchiodato sul poso dall'orrore,
mi sono dato a fuggire verso la tenda dell'ambulanza. Colà incontrai
l'infermiere Mohamed Hassan al quale, appena fui in grado di farlo,
raccontai con voce rotta dall'emozione, l'orrendo spettacolo a cui
avevo assistito.
Ambedue tornammo sul posto per prendere la borraccia che,
fuggendo, avevo lasciato a terra. Ma una scena ancora più orribile
ci attendeva: il disgraziato, ormai cadavere, era stato slegato e coricato
per terra, dove giaceva immerso in un lago di sangue, mentre
il graduato stava scorticandogli il petto.
Inorriditi e vincendo il timore che ci incutevano gli armati etiopici,
domandammo al Manghestu perché si accanisse ancora sul cadavere.
Egli ci rispose che con la pelle del morto aveva in animo di farsi lui
portasigarette che avrebbe usato soltanto nelle grandi solennità.
Terminata l'orribile operazione, il cadavere venne sezionato.
La testa ed i piedi vennero infilati nelle baionette, mentre si tentava
di bruciare gli altri miseri resti con petrolio preso in un accampamento
di cammellieri somali poco distante.
Poi gli armati, di cui uno portava infilata sulla baionetta la testa
dell'aviatore, altri due i piedi, a cui erano state tolte le scarpe,
un altro ancora gli indumenti e il Manghestu infine gli organi
genitali, presero posto in un autocarro che parti verso Dagabur,
Giggiga, Harrar.
Il giorno seguente, portando i rapporti medici a Wehib pascià, gli
narrai la scena orribile a cui avevo assistito. Egli, a onore del vero,
si dimostrò assai dispiaciuto, ma mi raccomandò di tacere.
Anche il mio compagno Mohamed Hassan raccontò il fatto
al dott. Mahmu Izzet, il quale gli ordinò di non allontanarsi
dall'ospedaletto.
Tre giorni dopo il fatto, il Manghestu fece ritorno a Bolali.
Egli dichiarò di aver ricevuto festosissime accoglienze a Dire Daua
e ad Harrar quando era giunto colla testa e con i genitali dell'aviatore
italiano. Il Maghestu aggiunse che ad Harrar era stato formato
un grande corteo che si era recato al palazzo del Governatore
di quella provincia per mostrargli i macabri trofei.
Fu il quarto giorno, se ben ricordo, che gli aeroplani italiani
compirono un'incursione lanciando dei manifesti a firma
del generale Graziani in cui era detto circa così :
"Avete assassinato un aviatore italiano, violando i principi dell'umanità
per i quali i prigionieri sono sacri. Sarete puniti."
Seppi allora che l'aviatore si chiamava Minniti.
Poco dopo infatti gli aeroplani italiani bombardarono la regione.
L'ambulanza però non subì alcun danno. La bomba più vicina
cadde a tre chilometri dalle nostre tende. Alcuni giorni dopo,
dietro richiesta del Dott. Sakkani - dato che la zona era pericolosa
per la vicinanza degli armati abissini, presi di mira dagli aeroplani
italiani - l'ambulanza lasciò Bolali per Giggiga e Harrar.
In questa ultima città incontrammo il dott. Abdel Hamid Sald,
inviato dal comitato egiziano per la difesa dell'Abissinia F.to ABDEL
MOHSEIN EL USCI Noi sottoscritti, Kaamel Aluned e Labib
Salamah, membri della missione egiziana, confermiamo pienamente,
sotto il vincolo del giuramento, le dichiarazioni fatte dal signor
Abdel Mohsein Uisci.
In merito al fatto di cui è stato testimone oculare abbiamo
raccolto testimonianze concordi da persone degne di fede
in Etiopia.
F.to Kamel Hamed F.to. Labib Salamah Noi sottoscritti Tozzi Condivi
cav ing. Latino, prof Arduino Albanese, Malesci prof. Pierluigi Subri
Ueredah, dichiariamo di aver udita la testimonianza del sig. Abdel
Mohsein Uisci, fatta in nostra presenza. F.to LATINO TOZZI
CONDIVI F.to ARDUINO ALBANESE F.to PIER LUIGI MALESCI
F.to SUBRI UEREDAH F.to FILIPPO ZAMBONI
Nel ASD- MAE Etiopia Fondo Guerra, 131/34 è depositato
il verbale di una deposizione spontanea fatta da un aiuto farmacista
egiziano facente parte della missione sanitaria egiziana di aiuto
all'Abissinia che testimonia il martirio del nostro concittadino
Tito Minniti medaglia d'oro al valor militare, al quale è intitolato
l'aeroporto di Reggio Calabria.
[In memoria di Tito Minniti è stato intitolato l'Aeroporto di Reggio
Calabria, una scuola elementare nel comune di Pompei (NA),
in località Tre Ponti e altri istituti scolatici, oltre a numerose vie
nelle città italiane.
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]
Il Verbale faceva parte di un dossier presentato dal Governo
italiano del tempo alla Società delle Nazioni per denunciare
le efferatezze degli abissini sui militari italiani che cadevano
in mano degli etiopici.
Infatti il caso dell'aviatore Minniti non fu l'unico relativo alla tortura
ed alla barbara uccisione di prigionieri italiani.
Non deve sorprendere perciò se a questa barbarie gli italiani
reagivano con durezza.
Come conclude la relazione, il caso dell' Eroico Minniti non fu l' unico,
ma moltissimi furono i torturati, mutilati e massacrati dai simpatici
Etiopi, i quali sembrerebbero non aver perso tale vezzo, secondo
il parere degli Eritrei che ben li conoscono e li hanno combattuti
in questi ultimi anni.
Etiopi che, per esempio, come racconta Arrigo Petacco in "Faccetta Nera"
(pag.132), quando il Negus si recava in visita nei villaggi, era preceduto
da simpaticissimi bandi dei ras locali che preavvertivano che se solo una
spina avesse deturpato la tunica dell' Imperatore, sarebbero seguiti arresti
ed impiccagioni.
Ma ad il nostro baldo ammiratore del Regime Schiavista questo
non sembra interessare, tant'è che mi scrive:
Fazioso molto più di me è chi difende un'aggressione militare condotta
con Irpite e gas asfissianti e un dominio coloniale mantenuto almeno
fino al '37 col terrore e coi massacri. Con il Duce che telegrafava
a Graziani:«Per finirla con i ribelli (...)impieghi i gas. Autorizzo ancora
una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente la politica
del terrore contro i ribelli e le popolazioni loro complici(...)».
Bene, veniamo all' Iprite (Irpite - testuale- ma la rabbia e la fretta sono
amici del refuso, che perdono. Più grave è l' intervento precedente che
parlava di "defoliante". Perchè non l'atomica?).
E' ancora il libro di Petacco a venirmi in aiuto (pag. 11), ricordando
che tra la lunga polemica tra Indro Montanelli (peraltro presente
sul posto all' epoca come Comandante di un reparto di Ascari)
ed il simpaticissimo Angelo del Boca, cui i frequentatori
dei molteplici siti antifassisti si ispirano per denigrare la Nostra
Povera Patria parlando dell' uso del gas in Etiopia, intervenne
sul Corriere della Sera Sergio Romano citando il rapporto del
Capitano dei Marines americani Pedro A. Del Valle, poi diventato
un pluridecorato Generale della II Guerra Mondiale, presente
in Abissinia come osservatore internazionale.
In questo rapporto l' ufficiale di origine portoricana, dopo aver
sottolineato che la maschera antigas non era in dotazione all' Esercito
Italiano, sostenne che l' Iprite venne usata solo in rarissime occasioni,
come rappresaglia per le atrocità commesse contro il citato aviatore
Minniti ed altri militi italiani.
Questo nonostante i magazzini militari di mezzo mondo fossero pieni
di Iprite nel periodo interbellico, pronto ad essere usato dalle varie parti
come rappresaglia verso il nemico.
Come testimonia, per esempio, il Massacro di Bari del 2 dicembre 1943,
che sicuramente il nostro coltissimo contestatore conosce, ma che
voglio brevemente riassumere.
Dunque quel giorno, gli aerei della Luftwaffe, che avevano
la pessima abitudine di bombardare le navi nemiche, a differenza
degli Alleati che pochissimi mesi prima avevano fatto strage
di abitazioni e civili nella vicinissima Foggia (tra l' altro mitragliando
i civili in fuga), colsero una grossa vittoria affondando 17 navi
angloamericane. Pochissime le case colpite.
Ma disgraziatamente una delle navi, la John Harvey, trasportava
100 tonnellate di Iprite, pronta all' uso come deterrente, come ricordato
dalla Dottoressa Saini Fasanotti, collaboratrice e ricercatrice
dell' Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell' esercito, nonchè
autrice del libro "La Gioia Violata" (che avevo citato nella mia
risposta come esperta di Diritto Internazionale di Guerra).
Iprite che causò la morte di oltre un migliaio di persone:250
civili baresi e oltre 800 militari e personale sanitario.
Naturalmente i tedeschi erano all' oscuro del carico di morte alleato,
totalmente top secret. Tant' è che per moltissimi anni gli alleati
non resero pubblica la verità.
Passiamo ora alla frase imputata al Duce, più volte riscontrabile
in rete; il fatto che ci siano tre puntini in mezzo avrebbe dovuto indurre
alla prudenza qualcuno, per evitare le pessime figure che continua
a voler fare, fidandosi del sentito dire.
Infatti il testo completo del telegramma è questo:
"Visto che gli abissini continuano ad usare pallottole
Dum Dum/STOP/autorizzo V.E./STOP/se lo ritiene necessario
/STOP/all' impiego del gas a titolo di RAPPRESAGLIA/STOP/"
Esclusa l'Iprite, di cui Mussolini aveva conosciuto durante
la Prima Guerra Mondiale gli effetti devastanti.
(A. Petacco, pag. 161 op. cit.).
Ed anche le altre frasi sono decontestualizzate dagli effettivi
testi dei telegrammi; ma, tuttavia, nella loro crudezza, sono imputabili
al clima voluto dai massacri incominciati dagli Etiopi.
E giustificate dal Diritto Bellico allora vigente."
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Lo storico James Stacey Barnes afferma chiaramente, riguardo
all'uso dei gas, che gli italiani "lo fecero legalmente, quando
gli abissini violarono le convenzioni internazionali, con l'evirazione
dei prigionieri, l'impiego di proiettili esplosivi, e l'abuso dei simboli
della croce rossa." [Lo storico si riferisce a un episodio molto
emblematico: i capi etiopi, per nascondersi, avevano impiantato,
presso un ospedale da campo gestito da europei, un falso ospedale,
violando le norme internazionali riguardanti l'uso del simbolo
della croce rossa. Alcuni proiettili diretti contro il falso ospedale
colpirono l'ospedale vero (provocando il ferimento di un tale
dottor Fritz, svedese).
La Società delle Nazioni, investita della questione, nonostante
la fortissima pressione internazionale avversa al nostro Paese,
non condannò l'Italia (come non l'aveva condannata per l'uso
dei gas) attribuendo correttamente la responsabilità di tutto
l'episodio al comportamento etiopico.]
La guerra di Etiopia, in realtà, ancor più che di una guerra
giusta, aveva le caratteristiche di un intervento militare
umanitario.
Diversi studiosi del colonialismo (quali Bandini, De Biase, Petacco,
Miège, Bourgin, ecc.) documentano che la colonizzazione italiana,
pur con le sue ombre, ha conseguito in tempi brevi risultati notevoli,
e che, in particolare, non solo gli etiopi più anziani manifestano
ancora rimpianto (e un commovente attaccamento alla nostra bandiera)
per essa, ma che pure i giovani, i quali non la hanno conosciuta
direttamente, la giudicano per molti aspetti in maniera positiva.
L'intervento italiano in Etiopia era dovuto a motivi di carattere
coloniale, ma esistevano pure validi motivi per quello che noi
definiremmo oggi un "intervento umanitario".
In Etiopia non esistevano né uno Stato, né una Nazione, né un governo,
né un sistema giuridico, degni di tale nome, ma la sottomissione violenta
al Ras Tafari di innumerevoli etnie (i Galla, ad esempio, accolsero
i nostri soldati come dei liberatori).
C'era un territorio abbandonato alla miseria e alla barbarie, genti
disperse e devastate da malattie endemiche, la prevaricazione
di una etnia sulle altre, e milioni di esseri umani ridotti a servi
e a schiavi. Sta di fatto che l'occupazione italiana fece fare all'Etiopia
in soli 5 anni un balzo in avanti millenario in termini di civiltà,
e portò la libertà a milioni di schiavi.
Lo stesso Ailè Selassiè era costretto a riconoscere che la situazione
dell'Etiopia era disastrosa, e cercava di descriverla in termini poetici
per farla sembrare meno drammatica: "Il mio paese è come il palazzo
della "bella addormentata nel bosco", in cui tutto è fermo da 2000 anni."
Esistono molte testimonianze significative, non di parte italiana,
che documentano la situazione dell'Etiopia di quel tempo.
Nel rapporto Maffey, redatto dal sottosegretario al Ministero
delle colonie inglese dopo una visita in Etiopia, si legge:
"Vi è una totale assenza di omogeneità nazionale che colpisce molto,
ed esistono anche le ambizioni discordanti delle varie etnie, inasprite
dal crudele trattamento riservato agli altri dal nucleo dominante."
Henry Rebaud scriveva in quell'epoca che: "La pulizia delle strade
di Addis Abeba è affidata agli avvoltoi, agli sciacalli e alle jene".
Patrick Balfour dichiarava nel 1935: "Ho visto un popolo,
l'etiopico, di civiltà bassissima, in uno stato primitivo
di barbarie feudale simile a quello dell'Inghilterra del 1066."
Lord Noel Buxton scriveva sul Times del 9 aprile del 1932:
"La schiavitù in Etiopia va di pari passo con l'assenza di ciò
che noi chiamiamo un regime di governo. Essa è in parte
il risultato e in parte la causa della debolezza del meccanismo
statale che è poco più sviluppato di quello del Medio Evo."
Le malattie endemiche mietevano decine di migliaia di vittime,
e, riguardo alla lebbra, in particolare, Lord Hodson testimoniava
che: "Vi è la più assoluta indifferenza per la vita dei lebbrosi,
e, secondo le informazioni dei consoli di Sua Maestà, oltre centomila
vagano per il paese."
Le testimonianze più impressionanti sono comunque quelle relative
alla schiavitù. Kathleen Simon, nel suo libro "Slavery", pubblicato
nel 1932, scriveva: "L'Etiopia è la regione più arretrata del mondo
e colà il problema della schiavitù è urgente: sono esseri umani
che divengono una semplice proprietà, proprietà che può essere
torturata o venduta sul mercato al miglior offerente; si tratta
di mogli vendute, separate dai mariti, o viceversa; di madri
strappate via dai loro figli che diventano proprietà di un altro.
Insomma, la schiavitù non riconosce nemmeno la maternità o la paternità
e sancisce il diritto di spezzare le famiglie per ragioni di mercato."
Lord Buxton dichiarava in un discorso alla Camera dei Lords tenuto
il 17 luglio 1935: "L'Etiopia è ancora il principale centro
della schiavitù del mondo."
In un memoriale diretto al Foreign Office John Harris scriveva:
"Non credo che Ailè Selassiè sia in grado di conoscere il numero
degli schiavi che possiede. A centinaia essi si contano dentro
i recinti delle sue terre e delle sue abitazioni. Ogni anno
egli riceve doni di schiavetti di ambo i sessi."
Emil Ludwig testimoniava: "In tutte le carovaniere d'Etiopia
si trovano oggi, come una volta, cadaveri di schiavi caduti
per esaurimento, mentre altri muoiono prima, si dice più della metà,
in conseguenza dell'evirazione."
Lord Mottiston, rispondendo alla domanda perché era favorevole
all'impresa italiana in Abissinia disse: "Volevo distruggere
la ridicola aberrazione per cui sembrava una cosa nobile
simpatizzare per le bestie feroci.
La legge abissina era di mutilare i vivi e poi seppellirli nella sabbia
affinché morissero. C'era allora un milione di questa genia; io speravo
che coloro i quali volevano indire manifestazioni contro gli italiani
si ricordassero che i prodi figli d'Italia affrontavano proprio allora
quegli sciagurati (.). Avevo telegrafato al generale De Bono
sul problema della schiavitù in Abissinia, rispose che le truppe italiane
erano state accolte col più commovente entusiasmo non solo da quelli
che erano stati ridotti in schiavitù ma anche dalla popolazione media(..).
Rivelai tutto ciò alla Camera dei Lords il 23 ottobre 1935. Io dissi
che era un'infamia mandare armi o cooperare all'invio di armi
ai brutali, crudeli abissini (.)."
Il comandante italiano in Abissinia aveva telegrafato a Mussolini:
"Come sapete ho viveri e vestiario sufficiente per le truppe
per i prossimi mesi, ma non vedo come potrei nutrire anche 120 mila
uomini, donne e bambini che vengono a porsi sotto la nostra protezione".
Mussolini rispose: "Dobbiamo assumerci tale rischio. Continuate
a nutrire la popolazione indigena come prima".
Man mano che proseguiva l'avanzata liberatrice dell'esercito
italiano, procedeva l'opera di liberazione dei servi e degli schiavi.
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Visto che siamo in tema mi piace ricordare che mentre
il Magistero della Chiesa ha sempre condannato la schiavitù,
diversi biechi illuministi la hanno giustificata con argomenti
razzisti.
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http://tinyurl.com/kjrdfl
http://tinyurl.com/m43u8g
http://tinyurl.com/mzp5ve
http://tinyurl.com/n7ad4q
In particolare Voltaire non solo investì i suoi risparmi nel commercio
degli schiavi, ma calunniò le reducciones sudamericane create
dei gesuiti, che salvavano dalla schiavitù, e "illuminavano"
veramente e fattualmente le popolazioni locali.
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http://tinyurl.com/ml3jpp
Grazie all'Italia fascista venne meno la tirannia scioana sulle altre
etnie, furono liberati due milioni di schiavi e quattro milioni di servi
della gleba, furono praticamente debellate tutte le malattie endemiche,
vennero create intere città, e villaggi trasformati in grandi centri
abitati (Dessiè, Harrar, Gondar, Dire Daua, Giggiga, Gimma, ecc.)
strade (più di cinquemila chilometri di strade asfaltate e millequattrocento
di piste camionabili) ferrovie, aeroporti, ponti, porti, dighe, fognature,
alberghi, mercati, mulini, fabbriche, manifatture, cementifici,
oleifici, impianti elettrici, telegrafici, telefonici, stazioni radio,
ospedali, ricoveri, ospizi, tubercolari, lebbrosari (quello di Selaclacà
disponeva di oltre settecento letti, e di un grandioso istituto di studi
e ricerche per la lotta contro la lebbra) strutture che ancora oggi
sono tra le migliori presenti nel Paese.
Mussolini, in un celebre discorso, disse, al termine della guerra
di liberazione, che "col gladio di Roma è la civiltà che trionfa
sulla barbarie, la giustizia che trionfa sull'arbitrio crudele,
la redenzione dei miseri che trionfa sulla schiavitù millenaria."
Sta di fatto che l'occupazione italiana fece fare all'Etiopia
in 5 anni un balzo in avanti millenario in termini di civiltà,
e portò la libertà a milioni di schiavi.
Quello che è stato compiuto in Etiopia ha semplicemente del miracoloso,
se pensiamo che è stato tutto realizzato nel periodo che va dal 1936
al 1940, cioè in meno di cinque anni.
L'Italia ha compiuto in pochi anni ciò che alcuni Paesi coloniali hanno
realizzato in decenni, e che altri Paesi non hanno mai realizzato.
La "diversità" e la validità della colonizzazione italiana apparve
già evidente anche a osservatori stranieri che erano presenti
in Etiopia alla fine del conflitto.
Ad esempio lo scrittore cattolico Evelyn Waugh, presente in Etiopia
in quel periodo, scrisse un libro-reportage (pubblicato in Italia
nel dopoguerra con il titolo "Waugh in Abissinia", ed.Sellerio).
Ne riporto alcuni passi relativi al periodo immediatamente seguente
alla cessazione della ostilità.
"Con la sua ampia rete di arterie secondarie, di cui Dessiè sarà il punto
di confluenza, la strada è al tempo stesso un simbolo dello spirito italiano
e la sua realizzazione suprema."
"E' un'opera immane, ampia, regolare, durevole: un monumento
al lavoro organizzato. Attraversa una regione tra le più impervie
del mondo; a tratti segue i contorni dei rilievi, intagliata nei pendii
rocciosi, sollevata su grandi piloni e su muraglioni di cemento
e pietra da taglio; molto spesso scende nelle gole che solcano
la regione, digradando delicatamente in una moltitudine di tornanti;
scavalca i fiumi sopra archi a tutto sesto simili a quelli romani,
e giunta sull'altra sponda si arrampica di nuovo tra le montagne;
talvolta corre dritta dritta attraverso la pianura, su alte banchine
di pietra.
Nel corso dei lunghi anni di pacifiche relazioni con l'estero,
quando aveva a disposizione consiglieri europei e un'illimitata
forza-lavoro indigena, il governo scioano, che affermava esplicitamente
di considerare il potenziamento delle comunicazioni la prima
delle sue esigenze, era riuscito solo a costruire quelle risibili piste
che congiungono Addis Abeba a Dessiè e Dire Daua a Giggiga:
e ci sono ancora liberali inglesi che sostengono che, lasciato
a se stesso, l'Imperatore avrebbe realizzato tutto ciò che gli italiani
si ripromettono di fare per lo sviluppo del paese!
La strada italiana è stata costruita in pochi mesi di impegno intensissimo,
per durare secoli: gli operai avanzavano letteralmente alle calcagna
dell'esercito, tanto che nella tarda estate noi percorrevamo comodamente,
a cento chilometri all'ora, terre che all'inizio della primavera precedente
erano state campi di battaglia. A un certo punto passammo accanto
alle tombe di settanta lavoratori civili che erano stati sorpresi,
disarmati, da un gruppo di abissini, e subito massacrati con tutte
le atrocità previste dalla tradizione (c'era un monaco alla guida
di questa impresa).
Terminati i combattimenti iniziarono le piogge: ma il lavoro proseguì.
Mentre la strada era ancora in costruzione un flusso ininterrotto di veicoli
addetti al rifornimento delle truppe teneva dietro come meglio poteva.
La regione che attraversava era in buona parte desertica; una parte
altrettanto grande era stata spopolata dalle violenze e dai saccheggi
degli etiopi, ma per quanto fosse sempre difficile far giungere
agli operai vettovaglie e materiali da costruzione, quelli
continuavano a lavorare.
Nei turni di riposo, poi, impiegavano il tempo libero a abbellire
la strada che avevano costruito, con giardinetti di arboscelli
e fiori selvatici, disegni ornamentali di pietruzze colorate,
aquile e lupe scolpite, fasci e teste di Mussolini, e iscrizioni
in stile romano con la data e qualche notizia del loro passaggio."
"Era una novità per l'Africa Orientale vedere uomini bianchi svolgere
con tanto impegno un semplice lavoro manuale. Per i sudditi di altri
imperi lo spettacolo era quanto meno sorprendente.
Agli abissini, poi, riusciva incomprensibile. L'idea di conquistare
un paese per andarci a lavorare; di considerare un impero come un luogo
in cui portare cose e non da cui portarne via, un territorio che deve
essere fertilizzato, coltivato, abbellito, e non denudato e spopolato;
di faticare come schiavi, invece di starsene in ozio come padroni,
tutto questo era completamente estraneo al loro modo di pensare.
Ma è proprio questo il principio dell'occupazione italiana."
"Quella regione era allora una pericolosa terra di nessuno piena
di paludi e banditi, ma nel momento in cui scrivo gli italiani
stanno lavorando proprio lì, e vi staranno ancora lavorando
quando leggerete queste parole: tra pochi mesi la grande arteria
asfaltata correrà senza interruzione lungo il percorso su cui il radicale
e io viaggiavamo tanto faticosamente un anno fa, fino ad Addis Abeba,
dove sta crescendo una nuova città, un vero "Nuovo Fiore",
che prenderà il posto delle pretenziose rovine di Menelik.
E da Dessiè nuove strade si irradieranno verso tutti i punti
dell'orizzonte, e lungo le strade passeranno le aquile dell'antica Roma,
come già vennero ai nostri selvaggi antenati in Francia e in Gran Bretagna
e in Germania, portando un pò di sudiciume e scelleratezza, parecchie
ciancie, qualche disgrazia per i singoli oppositori, ma prima di ciò,
oltre a ciò, e nettamente predominanti, due inestimabili doni:
la capacità di produrre un lavoro ben fatto, e l'attitudine a giudicare
con chiarezza; le due qualità determinanti dello spirito umano,
le sole per mezzo delle quali, sottomesso a Dio, l'uomo cresce e prospera."
Quando, nel 1941, il Degiac Ubennè Tesemmhà, che accompagnava
le truppe inglesi, intimò la resa finale al generale Nasi, così terminò
la richiesta:
"Avete trasformato tutto. Avete traforato le montagne, superato
le valli, sbarrato i fiumi. Per mille anni i figli dei figli ricorderanno
l'opera degli italiani".
Il Degiac avrebbe ben potuto ricordare un altro titolo di merito
degli italiani, e del fascismo, a mio parere di gran lunga superiore,
e cioè il primo, brevissimo decreto, emanato per volontà di Mussolini
il 5 maggio del 1936: "Ovunque in Etiopia sventoli la bandiera italiana,
lì la schiavitù è abolita."
Cordiali saluti.